5 Maggio 2024

1. Sviluppo e mutamenti dell’economia

Il periodo 1950-1962 rappresentò per tutta l’Italia una lunga fase di crescita di quasi tutti i comparti produttivi, benché si debbano sempre fare delle distinzioni tra sottoperiodi (la vera accelerazione degli indicatori economici si registrò a partire dalla seconda metà del decennio ’50), aree regionali (la crescita al Nord fu ben diversa rispetto a quella avvenuta nelle regioni centro-meridionali) e settori produttivi (contrazione generalizzata dell’agricoltura, stasi del tessile, crescita della siderurgia, della meccanica, dell’energia).

Naturalmente non è possibile scindere la realtà nazionale dal più ampio contesto europeo: «I decenni Cinquanta e Sessanta – ha scritto uno storico del­l’eco­nomia – rappresentano per l’Europa occidentale un periodo di forte crescita economica nel corso della quale il tasso di incremento del Prodotto interno lordo fu, in media, pari al 5,5% annuo; una crescita che, per continuità e intensità, non trova riscontro in nessun altro periodo della storia del vecchio continente e che, in taluni Paesi, quali la Germania e l’Italia, assunse valori ancor più elevati. Altrettanto eccezionale fu il livello di stabilità dei prezzi il cui incremento medio annuo si era mantenuto al di sotto del 3% nel corso degli anni Cinquanta e del 4% nel decennio successivo. Rispetto poi al periodo fra le due guerre il ventennio era trascorso al riparo di vere e proprie crisi, anche se non mancarono alcune fluttuazioni, come quelle registrate in corrispondenza del ciclo coreano o verso la fine degli anni Cinquanta che, comunque, rappresentarono solo delle semplici decelerazioni della crescita»[1].

Quegli anni furono inoltre decisivi per la politica di integrazione economica continentale (adesione italiana alla Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio e alla Comunità Economica Europea), per l’intervento diretto dello Stato nel­l’eco­nomia (Partecipazioni statali, ENI), nonché per alcune grandi riforme e progetti – non sempre pienamente attuati -, fra cui la riforma agraria, l’istitu­zione della Cassa per il Mezzogiorno, la riforma fiscale e lo Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-64, noto come ‘Piano Vanoni’.

La realtà legnanese, pertanto, si sviluppò nel quadro di una economia nazionale in profonda trasformazione che mostrava rilevanti ripercussioni sulla società: in questi anni, per esempio, emerse con prepotenza il fenomeno migratorio (su questo aspetto torneremo più avanti). Anche Legnano fu infatti meta, come tutti i centri principali del ‘triangolo industriale’, prima di singoli lavoratori poi di intere famiglie provenienti dal Triveneto, dal Polesine (in seguito alla grande alluvione del 1951) e dal Sud. Nell’eco­nomia cittadina, tuttavia, non tutto procedette positivamente, ché anzi si manifestarono difficoltà e crisi di varia natura. A partire dal 1952-1953 si avviò infatti un trend negativo per alcuni settori produttivi, scandito da crisi aziendali e da un conseguente, generale aumento della conflittualità sindacale. In particolare il settore tessile entrò in una parabola di costante difficoltà: negli ultimi anni era cresciuta la concorrenza estera, il reperimento della materia prima non era sempre agevole e richiedeva consistenti impegni finanziari, il mercato cominciava a preferire gli abiti confezionati esposti in gran copia da negozi e magazzini (costringendo le filature e le tessiture della zona a confrontarsi con un diverso ‘percorso commerciale’, non più basato sul rapporto consolidato grossista-dettagliante) e si era verificato un netto miglioramento qualitativo e quantitativo della produzione di fibre artificiali quale valida alternativa al cotone. Inoltre «tradizionali mercati di sbocco della nostra industria cotoniera, quali gli Stati dell’America del Sud, dei Balcani, del Medio Oriente e dell’Indonesia, non offrirono quasi più la possibilità di assorbimento dei nostri prodotti e si dovettero anzi considerare pressoché perduti, sia per ragioni di ordine politico, sia per la forte concorrenza dei paesi ad economia controllata o a bassi livelli salariali. Tale stato di cose ebbe per l’industria cotoniera italiana gravi conseguenze e provocò una sensibile e generale riduzione dell’attività produttiva e delle maestranze impiegate. […] La crisi cotoniera raggiunse punte così preoccupanti da indurre il Governo a promuovere, con provvedimento del 27 maggio 1955, prorogato per altri nove mesi a partire dal 1° dicembre 1955, la concessione di integrazioni salariali per gli operai che lavoravano a orario ridotto»[2].

Altrettanto gravi furono le difficoltà per il calzaturiero. Lo testimonia, fra l’altro, una lettera indirizzata, all’inizio del 1952, dal segretario del sindacato dell’abbigliamento della Camera del Lavoro di Milano ai sindaci di Legnano, Parabiago, Cerro Maggiore e San Vittore Olona, per invitarli a prendere posizione a favore dei lavoratori del settore:

«Voi conoscete la grave situazione economico-produttiva esistente nel settore calzaturiero – si legge nella missiva -, che costringe migliaia di lavoratori a lunghe soste di lavoro e alla disoccupazione, con grave danno di tutta l’economia comunale. Le cause della crisi sono indubbiamente di diversa natura, ma l’elemento determinante è, a nostro giudizio, il basso tenore di vita delle masse popolari italiane […] Nelle vostre località si aggiunge la particolare situazione per cui i lavoratori percepiscono un salario inferiore, dove gli industriali non vogliono riconoscere le tabelle salariali nazionali che stabiliscono un aumento del 5% in relazione alle retribuzioni attualmente corrisposte»[3].

La Camera del Lavoro di Legnano alcuni giorni prima aveva segnalato al sindaco di Legnano il mancato rispetto dei diritti delle lavoratrici, sia sul piano salariale che su quello dell’istituzione di servizi a favore delle donne-operaie con figli[4].

Durante l’estate del 1952, a rendere il clima sindacale ancora più teso, si verificò per alcuni giorni la sospensione dell’attività del cotonificio De Angeli Frua. La situazione dovette apparire subito preoccupante, tanto che intervennero sia il prefetto Pavone (che ebbe rassicurazioni da parte della dirigenza aziendale che il lavoro sarebbe ripreso a settembre senza attuare alcun licenziamento[5]), sia il sottosegretario al Lavoro Del Bo, per ottenere dall’INPS un provvedimento per l’integrazione dei salari per i dipendenti De Angeli Frua[6].

Si parlò anche, in tale frangente, di una Conferenza economica da svolgere in città[7] per affrontare i problemi emergenti; ma, passati alcuni mesi, non se ne fece nulla. Nel giro di poco tempo la situazione andò peggiorando e si verificarono problemi analoghi in altre aziende tessili, fra cui la Mambretti e la Giulini & Ratti, poi destinate alla chiusura. Nel 1953 le cronache furono costrette ad occuparsi dei licenziamenti effettuati alla Tessitura Agosti e della sospensione del lavoro per diverse settimane alle Officine Ranzi. Intanto si intensificarono gli scioperi fra i tessili per il rinnovo del contratto[8].

Alla Tosi si verificò uno sciopero durato addirittura 45 giorni: i lavoratori chiedevano provvedimenti per migliorare la sicurezza e la ‘vivibilità’ del­l’am­biente di lavoro. Furono mesi di durissimo confronto fra sindacati e dirigenza aziendale, fino a giungere al licenziamento di alcuni rappresentanti dei lavoratori. Il Consiglio di amministrazione della Cooperativa ‘Avanti’ intervenne in tale frangente con una lettera aperta al sindaco, alla Camera del Lavoro e ai licenziati (gli operai Vignati, Badari, Losa, Colombo, Re, Mezzadra, Pravettoni e Rabolini), in cui si esprimeva «solidarietà fraterna per gli otto operai della Franco Tosi colpiti dalla rappresaglia padronale, perché in ogni lotta del lavoro sempre furono alla testa dei loro compagni di fatica contro lo sfruttamento e in difesa della dignità, dei diritti e della libertà dei lavoratori»[9].

 

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Le gravi difficoltà in cui si stava dibattendo l’economia della zona si rivelarono solo più tardi – fatto salvo il settore tessile – di natura congiunturale. In realtà si trattò di un passaggio delicato, dovuto all’accelerazione dei profondi mutamenti in atto. In questo stesso periodo si registrarono successi di altre ditte locali: il panorama industriale si andò gradualmente diversificando rispetto alle principali produzioni (tessile e meccanica), nacquero nuove aziende, l’arti­gianato e il commercio si articolarono. Fu il caso della Giovanni Crespi, sorta a Legnano nel 1936:

«nell’Italia post-bellica […] la piccola azienda a conduzione familiare aveva già mutato la sua struttura e la sua identità. Nel 1953 era diventata una società per azioni con un magnifico e moderno stabilimento dotato di attrezzature di avanguardia. L’anziano patriarca, intanto, aveva lasciato il bastone del comando di tutto il gruppo nelle mani delle nuove generazioni. […] E, sul piano produttivo, la strada maestra da percorrere rimaneva sempre quella costituita dallo sviluppo tecnologico delle materie plastiche e dalle sue molteplici applicazioni. Dai tessuti gommati alla produzione di finta pelle alla nitrocellulosa, dalla lavorazione del cloruro di polivinile a quella dei poliuretani, il traguardo era quello della lavorazione di materiali sintetici in grado di competere ad armi pari con quelli naturali per qualità e possibilità di impiego»[10].

Nello stesso 1953 si verificò un grave incidente nello stabilimento dell’azienda:

«La ditta Giovanni Crespi di Legnano ha [restituito] in questi giorni al dott. G. Gerundini, primario della divisione di Traumatologia ed Ortopedia infortunistica dell’ospedale, la somma di lire 500 mila che qualche mese fa la ditta stessa aveva anticipato all’ospedale di Legnano per l’acquisto di medicinali di alto costo necessari alla pronta cura di quattro suoi operai gravemente ustionati, somma che in questi giorni l’INAIL ha rimesso alla ditta. […] A semplice richiesta dei sanitari dell’ospedale la ditta ha prestato la somma senza neppure la certezza di essere rimborsata a sua volta dall’INAIL. […] A sua maggior benemerenza oggi la ditta versa l’intera somma a favore del reparto che a suo tempo ebbe in cura i suoi operai»[11].

La reazione alla sfavorevole congiuntura non tardò dunque ad arrivare. Il Cotonificio Cantoni procedette ad una serie di interventi (alcuni già citati), che si aggiunsero alla nuova centrale idroelettrica di Bellano, all’ammodernamento del macchinario di Cordenons, al recente fabbricato per finissaggio, piegatura e spedizione dei tessuti candeggiati di Castellanza. A Canegrate e a Legnano vennero installati nuovi telai automatici. A Bellano, nel 1952, si provvide a sostituire gradualmente il macchinario di preparazione e a rinnovare e rimodernare i filatoi.

«Nello stesso anno venne installata a Legnano la prima macchina per sanforizzare i tessuti, alla quale altra ne sarà aggiunta nel 1955. Accanto a queste opere di ammodernamento degli impianti, la società procedette alla costruzione di abitazioni per i suoi dipendenti, e questo sia a Legnano che a Cordenons e a Bellano, anticipando i contributi del piano INA Casa».

Superato il ‘triennio cruciale’, tra il 1952 e il 1954, anche quello successivo non fu esente da difficoltà e da una altrettanto intensa opera di ristrutturazione aziendale. Per quanto riguarda i cotonifici, i filati e i tessuti nazionali stentavano a ritrovare le tradizionali vie dell’esportazione, mentre «il mercato interno era contrassegnato da una troppo lenta e faticosa espansione, tanto che il consumo pro-capite dei prodotti tessili in Italia continuava ad essere uno dei più bassi tra i paesi dell’Europa Occidentale». Per il Cotonificio Cantoni gli utili industriali risultarono esigui e l’eccedenza attiva del bilancio fu costituita prevalentemente da frutti degli investimenti mobiliari e immobiliari effettuati negli anni di più favorevole congiuntura. Anche in questo periodo l’antico cotonificio legnanese

«non rallentò, né dilazionò la grande attuazione del suo programma di ammodernamento degli impianti. Nello stabilimento di Castellanza, la cui filatura era da anni diretta da un tecnico di valore, Giuseppe Manzoni, fu introdotto, nel 1956, un primo assortimento di filatoi di grande formato, mentre a Legnano, s’installava un nuovo impianto per la tintura in rocche. L’anno successivo, a Castellanza, venivano montati 624 telai automatici, oltre ad una nuova imbozzimatrice, cui nel ’58 fecero seguito una seconda ad aria calda ed una terza a cilindri. Nello stesso anno fu ultimata a Bellano la sostituzione dei vecchi banchi; nella tessitura di Legnano furono allestiti 24 telai alti e altri 24 in quella di Canegrate, mentre in tutte le tessiture si completava l’installazione delle cannettiere e tutta la trama veniva ribobinata. A Castellanza, al primo gruppo di filatoi a grande formato – favorevolmente sperimentati – se ne aggiunsero nel 1959 altri 30; mentre a Cordenons, in concomitanza alla opere di rimodernamento dei filatoi, veniva rinnovato tutto il reparto di preparazione. Contemporaneamente, per l’intero complesso delle filature, si procedette alla graduale applicazione del sistema di aspirazione ‘pneumafil’, che consente di eliminare il pulviscolo di cotone nelle sale di lavorazione».

Nel triennio 1955-57 assunsero particolare rilevanza per l’industria tessile altri problemi, connessi alle modificazioni che si erano avute nella struttura e nel funzionamento del mercato: i tessuti a tinta unita e le flanelle cedettero progressivamente il posto a tessuti più moderni e variopinti. Profondi mutamenti si erano nel contempo verificati nel campo della composizione e dei procedimenti di lavorazione dei tessuti stessi. Ciò dipendeva dal fatto che, a causa dei grandi progressi realizzati nella loro fabbricazione, le fibre artificiali e sintetiche andavano acquistando sempre più i favori dei consumatori e ciò valeva tanto per i manufatti composti al cento per cento da queste fibre, quanto per quelli misti con le fibre naturali (cotone, lana, lino).

Il manifestarsi di queste nuove tendenze

«consigliò il Cotonificio Cantoni ad operare tempestivamente una revisione della sua tradizionale politica commerciale, accompagnata dalla necessità di profonde trasformazioni ed innovazioni nel funzionamento degli stabilimenti. Alla richiesta di camiceria di fantasia – garze a giro inglese – l’azienda sopperì, in un primo tempo, utilizzando al massimo i telai della tessitura di Legnanello; ma ben presto l’attrezzatura di questo stabilimento si dimostrò insufficiente, sia dal punto di vista delle sue capacità quantitative, sia sotto il profilo del costo di produzione. Venne pertanto decisa la costruzione di una nuova moderna tessitura, da allestire su un terreno situato poco distante da Legnanello, in località Olmina, secondo un piano razionale che prevedeva una dotazione di macchinario ultramoderno, dalle rocchettiere ai bobinatoi, ai telai. Si trattava di porre mano alla creazione di una nuova unità industriale, della quale il Cotonificio Cantoni doveva riportare il vanto per l’eccezionalità dell’ideazione e la coraggiosa messa in opera».

Ma la nascita di quest’ultima unità industriale coincise con un grave lutto per il Cotonificio Cantoni: l’ingegner Carlo Jucker, da decenni alla guida della società come presidente e consigliere delegato, morì infatti nell’ottobre 1957[12].

Una ‘fotografia’ del Cotonificio Cantoni al termine di questo lungo periodo di ristrutturazioni e ammodernamenti si deve alla rivista «Legnano». Nel primo numero del 1960 vi si legge:

«Gli stabilimenti Cantoni nella nostra città sono attualmente sette e cioè tre di tessitura (Legnano centro, Via Barbara Melzi e Olmina, quest’ultimo recentissimo), uno di finitura velluti, uno per la tintoria e finissaggio tessuti, uno per la tintoria e confezione filati e uno per le confezioni. Le tessiture comprendono circa 2150 telai automatici di diverse altezze, particolarmente attrezzati per la fabbricazione di velluti, popelines e quadrettati. Lo stabilimento di finitura velluti occupa grandi fabbricati con moderni impianti e la sua produzione è quanto di meglio oggi si possa realizzare in questo campo, tanto che una grossa aliquota di essa viene esportata ovunque e soprattutto negli Stati Uniti d’America. La tintoria e finissaggio tessuti comprende il candeggio, la tintoria vera e propria, le calandre, le mercerizzatrici, la polimerizzatrice, le Sanfor, un reparto per la garzatura dal quale escono le flanelle e tessuti similari. La tintoria filati comprende il candeggio e la tintoria di filati in matasse e in rocche. La sezione confezione produce camicie, impermeabili, lenzuola, federe, fornendo in gran copia le amministrazioni civili e militari italiane e straniere»[13].

A fare definitivamente le spese del difficile momento per il settore tessile fu invece un altro dei principali stabilimenti della città, il De Angeli Frua. Il cotonificio aveva mantenuto quasi le stesse caratteristiche del periodo pre-bellico, sia sul piano del macchinario e delle dotazioni tecnologiche, sia riguardo le produzioni e le tecniche di marketing. La mancanza di una reale e moderna strategia di ‘ringiovanimento’ condannò l’azienda ad un declino progressivo, fino ad arrivare ai quasi mille licenziamenti del 1955. La vicenda De Angeli Frua segnò la fine di un’epoca a Legnano: per oltre un secolo lo sviluppo dell’industria tessile nella ‘Manchester d’Italia’ (soprannome conteso alla vicina città di Busto Arsizio) non aveva avuto significative battute d’arresto. Certo, nei periodi di recessione nazionale e internazionale s’erano registrate difficoltà congiunturali, così era successo nei periodi delle due guerre mondiali. Ma ora si rischiava di incrinare un meccanismo di espansione di un intero comparto economico, radicato sotto il profilo imprenditoriale, delle maestranze, della disponibilità di stabilimenti e macchinari, di capitali investiti, di mercati import ed export. Il ‘Castellaccio’ della De Angeli Frua, stabilimento a più piani costellato da una serie di caratteristiche ‘torri’, posto nel cuore di Legnano (lungo l’attuale Corso Italia), era uno dei simboli della città, del lavoro, di un sistema produttivo che, in un secolo, aveva segnato profondamente anche lo sviluppo demografico e urbanistico. Così la cessazione di attività della De Angeli Frua provocò gravi scompensi sociali, soprattutto alle famiglie dei dipendenti espulsi dal sistema produttivo, ma suonò come campanello d’allarme sia per le altre ditte tessili della città, che per l’intera realtà economica della zona, obbligata a fare i conti con un sistema in rapida evoluzione.

Il fallimento non passò certo sotto silenzio. La chiusura della fabbrica portò le persone licenziate e i sindacati a manifestare numerose volte per le vie della città e a Milano. Il sindaco Anacleto Tenconi fu coinvolto affinché intervenisse per portare a più miti consigli la dirigenza aziendale. La minuziosa cronaca di una seduta dell’assemblea civica, riportata dagli organi di stampa, aiuta a capire alcuni aspetti della questione e il clima che si respirò in quei giorni nella città del Carroccio:

«Iersera s’è riunito a Palazzo Malinverni il Consiglio comunale. Presente la quasi totalità dei componenti il congresso e l’aula consiliare era gremita di pubblico, composto in gran parte da una foltissima rappresentanza delle maestranze della Società De Angeli Frua che, come è noto, ha deciso di chiudere il proprio stabilimento di Legnano, licenziando ottocento operai e centocinquanta impiegati. Non appena aperta la seduta il sindaco dava lettura di una interpellanza presentata dai consiglieri Brandazzi, Porinelli, Raimondi della minoranza socialcomunista, per sapere cosa avesse fatto e cosa abbia intenzione di fare la Giunta municipale a favore di questi operai che hanno innanzi ad essi ed alle loro famiglie lo spettro della fame. Il sindaco risponde delucidando il Consiglio sui tentativi effettuati per risolvere la vertenza, tentativi che purtroppo sino ad ora non hanno portato ad alcun risultato positivo. Il sindaco inoltre ha deplorato pubblicamente e con parole piuttosto vivaci l’agire dell’ingegner Giuseppe Frua, presidente della De Angeli Frua il quale, convocato dal Prefetto di Milano, ha atteso ben dieci giorni prima di recarsi in corso Monforte. Sappiamo che l’ing. Frua ha accettato l’invito del Prefetto unicamente quando è venuto a conoscenza che gli operai, indignati per il suo atteggiamento, avevano deciso di recarsi a Milano per effettuarvi una grande dimostrazione di protesta».

Alle dichiarazioni di Tenconi fece «seguito la comunista signora Porinelli, la quale ha conciso il suo intervento in quattro richieste: provocare il ritiro dei licenziamenti alla De Angeli Frua, indire una conferenza economica dei gruppi produttivi cittadini per studiare la situazione, ottenere dalla Cassa d’integra­zione una proroga di sei mesi dei pagamenti, esonerare dal pagamento di imposta di famiglia gli operai capi famiglia licenziati alla De Angeli Frua». Il comunista Brandazzi affermò quindi che «le parole di solidarietà del sindaco non bastano a risolvere la situazione tessile e la situazione drammatica degli operai della De Angeli Frua». Il sindaco reagì «vivamente, dicendo di aver sempre seguito con angosciosa attenzione le vicende della crisi come stanno a dimostrare i sussidi che sono stati dati in questi anni: nel 1951 sono stati spesi 35 milioni in assistenza e nel 1955 se ne spenderanno 80». Nella replica il sindaco, rispondendo ai consiglieri, affermò che sarebbe stato fatto «l’impossibile per far ritirare i licenziamenti». Circa la conferenza economica dei gruppi produttivi il sindaco comunicò «che questa stessa iniziativa, tentata due anni or sono, non ha avuto la possibilità di effettuarsi a causa del rifiuto di partecipazione ad essa da parte della maggior parte delle persone invitate»[14].

Furono settimane difficili in città. Si susseguirono varie assemblee e manifestazioni spontanee; il 26 ottobre 300 dipendenti licenziati manifestarono a Milano in Piazza Concordia, davanti all’abitazione dell’industriale Frua. La Commissione interna del De Angeli Frua venne ricevuta all’ALI e più volte dal sindaco, che tentò varie strade per far tornare la società sui propri passi, senza riuscirvi. La CISL invitò dapprima le maestranze ad accettare l’offerta di una ‘buonuscita’ pari a 800 ore di lavoro, ma tale proposta venne respinta[15]. La stessa CISL organizzò in novembre un’assemblea sul fallimento della tessitura (che mantenne aperto per diversi anni uno stabilimento di più modeste dimensioni a Saronno), cui intervennero il segretario provinciale dei Tessili, Vittorio Meraviglia, e l’onorevole Ettore Calvi, che spiegò di «voler interessare i ministri dell’Industria e del Lavoro per ottenere un prolungamento di 12 mesi del decreto riguardante l’integrazione salariale per i cotonieri»[16]. Ma fu tutto inutile: la chiusura del ‘Castellaccio’ scosse Legnano, la fabbrica-fantasma nel cuore della città rimase per diverso tempo ad ammonire la realtà economica locale sulla necessità di restare al passo coi tempi.

A differenza della De Angeli Frua, altre aziende tessili locali si mostrarono in grado di resistere vittoriosamente alle trasformazioni in atto nel settore: vanno a tale proposito citate almeno la Manifattura di Legnano e la Bassetti di Rescaldina, presso la quale lavoravano numerosi legnanesi.

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La Manifattura resse all’urto della concorrenza puntando sia sulla qualità del prodotto (filatura di cotone Makò, la cui materia prima veniva importata soprattutto dall’Egitto e dagli Stati Uniti) che su continui investimenti tecnologici. Nuovi macchinari per la produzione e il controllo di qualità furono introdotti proprio in tutto il decennio ’50, avviando anche una innovativa struttura di servizi alla clientela. Degli oltre 800 dipendenti, quasi il 90% erano giovani ragazze e donne della città e del circondario: quelle che provenivano da più lontano erano ospitate nel convitto interno, retto da religiose; quest’ultime si facevano carico anche della conduzione di un asilo riservato ai figli delle dipendenti.

Anche la Bassetti era in fase di espansione, tanto che nel 1956 Giovanni Bassetti inviò al sindaco di Legnano una lettera con la quale chiedeva nominativi di operai tessitori «per effettuare dei turni di lavoro notturno (dalle ore 21 alle ore 6)», precisando che «potrebbero disimpegnare tale lavoro anche assistenti tessili, vice assistenti tessili e carica telai disposti a farlo»[17]. Il sindaco Tenconi si rivolse subito all’Unione sindacale di zona della CISL per ottenere nominativi di operai disoccupati. Ricevuta immediata risposta, Tenconi provvide a trasmettere alla Bassetti le generalità di 8 assistenti e di un aiuto assistente di tessitura licenziati dalla De Angeli Frua e di altri sei assistenti già in forza al Cotonificio Dell’Acqua e ora disoccupati[18].

Edoardo Pagani, perito tessile legnanese, lavorò alla Bassetti dalla fine degli anni Cinquanta fino alla cessione alla Marzotto (attraverso questa, poi, la Bassetti passerà al Gruppo Zucchi, suo principale concorrente in Italia). Ora su questi temi racconta:

 

«I fratelli Giovanni, Ermete e Felice Bassetti, quest’ultimo padre di Giansandro e Piero, decisero di riorganizzare l’azienda modernamente, utilizzando le strategie di marketing che cominciavano a farsi strada nell’economia del nostro Paese. Affidarono a società di consulenza lo studio dei tempi e metodi di lavoro, il controllo della qualità, l’organizzazione delle vendite, la riorganizzazione del lavoro del personale tecnico e amministrativo Sempre in questa prospettiva vararono il progetto per la costruzione dello stabilimento di Rescaldina».

 

I nuovi capannoni vennero inaugurato nel 1962 dal Ministro Emilio Colombo: presentavano moderni reparti di preparazione e tessitura sotto imponenti volte. Una realizzazione ardita, che vide la luce nel momento in cui il “boom” stava per terminare e avanzava la crisi del settore tessile. Nella ristrutturata realtà industriale della Bassetti «si abbandonarono diverse tradizionali produzioni (come i teloni per la copertura dei camion e dei vagoni ferroviari, che non potevano competere con i calandrati di plastica), per perseguirne di nuove, orientate all’arredamento della casa, ricche di gusto e fantasia»[19].

Cambiando comparto produttivo, è giocoforza occuparsi della Franco Tosi. Per questa grande azienda gli anni Cinquanta furono segnati da un clima complessivamente positivo: l’intensificarsi dell’attività produttiva, legata a continui ordini dall’Italia e dall’estero, dava «la possibilità – come si legge nella relazione del Consiglio di amministrazione del 28 maggio 1952 – di guardare all’avvenire con una certa tranquillità»[20]. Ma fu soprattutto la seconda metà del decennio a consolidare ulteriormente il colosso metalmeccanico cittadino:

«Il 1955 poteva dirsi soddisfacente [sotto diversi] aspetti: era in corso di installazione un grande tornio verticale Schiess con diametro 12-15 metri, uno dei maggiori d’Europa; la massa di ordinazioni assunta era superiore del 72% a quella dell’anno precedente, raggiungendo una cifra mai ottenuta in passato; era stato consegnato un gruppo termico per la produzione di energia elettrica della potenzia di 70.000 kw, il primo di tale potenza costruito in Italia»[21].

Si registrò inoltre un’attività molto intensa nel settore degli impianti termici terrestri per installazioni destinate sia al mercato italiano, che estero. Fu avviata la produzione di nuovi tipi di motori diesel e si ebbe ancora una forte ripresa produttiva negli impianti navali a vapore, nelle turbine idrauliche e negli impianti per cementifici.

Nello stesso 1955 si verificò uno scambio epistolare fra l’allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, e il prevosto di Legnano, monsignor Virgilio Cappelletti, in merito al rischio che dagli Stati Uniti potessero cessare le commesse all’azienda di Piazza Monumento, nel quadro di una più ampia azione di controllo delle imprese al cui interno prevalevano forze sindacali a maggioranza socialcomunista. A questo proposito va ricordato che le ingerenze e le pressioni americane subirono una vera e propria escalation verso la metà degli anni Cinquanta: già nel 1953 l’ambasciatore statunitense Dunn aveva presentato al ministro La Malfa un promemoria in cui si spiegava che «sarà direttiva del Governo americano non collocare commesse nelle industrie controllate dai comunisti». Sulla stessa linea si mosse la nuova ambasciatrice a Roma, la famosa Claire Boothe Luce, la quale più volte intervenne presso il presidente della FIAT, Vittorio Valletta, minacciando di troncare i rapporti con la casa automobilistica torinese se questa non avesse preso provvedimenti contro gli operai comunisti iscritti alla CGIL. La FIAT costituì così l’esempio più clamoroso di tutti gli strumenti posti in essere per ridurre ogni forma di contestazione da parte dei lavoratori. Non fu però l’unica, visto che un po’ in tutte le fabbriche italiane il clima era più o meno analogo[22].

Ecco dunque l’arcivescovo Montini impugnare carta e penna e scrivere, in data 4 febbraio 1955, la seguente lettera indirizzata al prevosto di Legnano:

«Reverendissimo monsignore, mi si dice che gli Americani abbiano negato una cospicua fornitura di lavoro alla Società Franco Tosi di Legnano per la prevalenza dei membri della CGIL su quelli della CISL nella Commissione interna, e che il provvedimento possa avere gravi conseguenze per il benessere di cotesta popolazione. Gradirei avere da lei le informazioni del caso. Si vorrebbe qualche mio interessamento, che io ben volentieri darei per il bene dei lavoratori e delle loro famiglie; ma bisogna sapere bene come siano le cose, perché la cosa mi sembra già compromessa; e l’esperienza mi dice che è ben difficile far modificare provvedimenti del genere».

Il tono preoccupato della missiva venne ripreso nella risposta di Cappelletti, datata 14 febbraio:

«Eccellenza reverendissima, solo oggi mi è possibile rispondere alla sua cortese richiesta circa la situazione della Franco Tosi e il suo rapporto con gli Americani. Il problema che ne è derivato dal risultato delle elezioni della Commissione interna, lo si può considerare sotto due aspetti: 1) importantissime commesse navali negate; 2) rifiuto a domanda di finanziamento di cui l’azienda abbisognerebbe per un maggior sviluppo di attrezzature più rispondenti alle esigenze attuali della tecnica della produzione».

A questo punto Cappelletti riepilogò brevemente la situazione, facendo presente che il problema esisteva realmente, benché le recenti elezioni interne avessero segnalato un lento ma graduale radicamento della CISL («i Liberi») in fabbrica. Quindi il prevosto allegò una più puntuale relazione e alcuni articoli relativi alle votazioni per la Commissione interna. Nella relazione si legge:

«La situazione delle officine Franco Tosi può oggi considerarsi molto buona, sia dal punto disciplinare che da quello produttivo. Già da qualche anno la direzione della Società ha agito in modo molto rigido contro qualsiasi forma di disordine e di propaganda politica sovversiva, creando in ditta un’atmosfera assolutamente tranquilla dove il lavoro può svolgersi con ritmo intenso e disciplinato. La corrente dei Liberi Lavoratori ha dal canto suo affiancato l’opera della direzione e da tale comunione di sforzi è nato un graduale miglioramento, di cui hanno costituito prova i risultati ottenuti nel corso delle recenti elezioni per la Commissione interna (12 dicembre 1954), elezioni che hanno segnato la perdita per la corrente sindacale FIOM di circa 400 voti su un totale di 3.314 voti validi. Il fatto che per effetto del meccanismo di valutazione dei resti, a tale affermazione non abbia corrisposto formalmente un aumento nel numero seggi (4) già in precedenza tenuti dalle correnti Libere, non toglie valore a quella che è l’eloquenza delle cifre sopra accennate. È mia convinzione che è in atto già da qualche anno presso la Franco Tosi un graduale evolversi del pensiero politico delle maestranze verso le idealità cristiane e democratiche, evoluzione che non nasce da considerazioni opportunistiche, ma dal profondo della coscienza dei lavoratori».

Monsignor Cappelletti passava quindi ad una valutazione della situazione lavorativa e produttiva all’interno della Tosi, che egli definì «il midollo della vita industriale di Legnano e zona»:

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«L’eventuale esclusione della Franco Tosi dalle forniture NATO […] risulterebbe perciò tanto più dolorosa in quanto in tale gesto tanto i lavoratori cristiani quanto la direzione della Società vedrebbero il non riconoscimento di questa loro opera difficile e coraggiosa. Anche se in questo momento le forniture in corso presso gli stabilimenti Tosi sono tali da assicurare lavoro e tranquillità alle maestranze per l’immediato futuro, è però indispensabile per la Franco Tosi, data la potenzialità e la capacità di produzione dei propri stabilimenti, poter fare assegnamento su tali commesse sia perché nel prossimo avvenire esse possono presentarsi come indispensabili fonti di lavoro, sia anche per il valore morale che esse rappresentano. So che la Franco Tosi ha anche in corso pratiche per ottenere un finanziamento alla scopo di continuare la grandiosa opera intrapresa nel dopoguerra per il rinnovamento dei propri impianti. Anche su tale problema mi permetto prospettare la opportunità che nei limiti del possibile si venga incontro ai programmi della Società, in quanto che da una più efficace attrezzatura produttiva possono derivare anche miglioramenti nelle condizioni di vita dei lavoratori e benefici quindi non solo di carattere materiale, ma anche morale»[23].

Nello stesso periodo proseguì alla Tosi il processo di ammodernamento degli impianti grazie alle risorse finanziarie interne. Tra le più importanti novità aziendali vanno notate «la costruzione di un nuovo capannone per le lavorazioni ultra pesanti con gru da 100 tonnellate e torni, con una grande fresatrice-alesatrice Innocenti. Un completo riammodernamento fu avviato nel reparto di lavorazione palette per turbine a vapore, turbine a gas e compressori e si passò all’ordinazione di macchine a dentare adatte alla lavorazione dei grandi turboriduttori navali. Nella sezione montaggi fu sistemato un impianto prova per turbine a vapore di 70.000 kw, mentre se ne stava predisponendo un altro per potenze sino a 200.000 kw. Positivi anche i rapporti con le società con le quali erano in corso rapporti relativi alle licenze di costruzione: con la Westinghouse per la costruzione di turbine a vapore relative anche ad impianti nucleari; con la Combustion Engineering per le caldaie a vapore. Tra le produzioni di maggiore prestigio si ricordano l’apparato motore della turbonave Integritas da 11.200 tonnellate; 34 gruppi a vapore di media potenza; unità termiche per società elettriche; la turbina a vapore naturale per la centrale Serrazzano della Larderello; turbine a gas per la marina militare; una caldaia da 300 tonnellate per la Ute di Montevideo. Infine si stava preparando il personale tecnico necessario a seguire gli sviluppi del settore relativo all’energia atomica a fini pacifici»[24]. Grazie a tutto ciò, per la Tosi gli anni Cinquanta si conclusero dunque sotto il segno di una riconosciuta solidità finanziaria, di rapporti consolidati con l’estero, di specializzazione nelle grandi produzioni, di costante ammodernamento con grandi macchine di tutti i reparti e di stabilità degli utili.

 

Nel complesso, il 1955 può essere considerata una data ‘spartiacque’ per l’eco­nomia cittadina. Nell’anno in cui i dati dell’industria nazionale, uniti a quelli del PIL e dei consumi, facevano parlare di inizio del ‘miracolo’ economico, la città perdeva una delle sue aziende storiche, mentre altre società cercavano di organizzarsi in modo da affrontare con maggiori certezze i tempi nuovi. È di questo stesso anno un documentato quadro dell’economia locale, stilato dall’ALI in occasione del decimo anniversario della propria fondazione. Vale la pena ripercorrere ampiamente al documento, a partire proprio dalle annotazioni sul comparto tessile:

«Gli industriali tessili occupano da soli oltre il 60% della maestranza operante nella zona. Tale preminenza, insieme alla grave attuale crisi, induce a fare anzitutto alcune considerazioni sulla industria tessile. Essa nella nostra zona si presenta nei suoi principali rami: cotoniera, fibre tessili artificiali (rajon e naylon), del lino e canapa; ha anche una piccola rappresentanza dell’industria laniera e serica. Da oltre un triennio assistiamo ad una crisi dell’industria cotoniera che va sempre più aggravandosi e sulla quale si è da tempo richiamata l’attenzione degli organi del Governo per quei provvedimenti che valessero, se non a risolvere, almeno a mitigare l’asprezza della situazione. Purtroppo tutte le sollecitazioni, tutti gli interessamenti hanno avuto una scarsa reazione, perché a tutt’oggi nessun provvedimento di carattere sostanziale è stato preso. […] Che la situazione sia grave è un dato di fatto incontrovertibile ed è dimostrato non soltanto dalla pesantezza che si nota nelle industrie, ma anche dalla scarsa occupazione operaia, che va sempre più aggravandosi. Per di più anche il palliativo della Cassa di integrazione guadagni a favore delle maestranze diviene di sempre minore applicazione, per il grande uso che se ne è dovuto fare fin qui».

Il documento proseguiva ricordando la «discesa paurosa delle nostre esportazioni», in atto ormai da alcuni anni, cosa che da sola minacciava gli equilibri delle singole aziende e di conseguenza i livelli occupazionali. L’analisi complessiva delle cause di tale situazione si soffermava sugli argomenti sopra menzionati: dipendenza dall’estero per la materia prima, alto costo del denaro, carenza di capitali, crescenti costi di produzione, pressione fiscale, crescente concorrenza delle fibre sintetiche e di quelle naturali importate.

Il quadro sull’industria meccanica era differente:

«Nata al servizio di quella tessile, ha subito avuto caratteristiche proprie e per forza di operosità e di ingegno ha affrontato e spesso risolto i più impegnativi problemi. I nostri vecchi ricordano le prime costruzioni di automobili, anche di aeroplani, di centrali idrauliche termiche, di turbine, e via via di tutto quel macchinario che richiede non solo attitudini intellettive, ma potenza di organizzazione. Pochi tipi di macchine sono conosciuti che non siano stati fabbricati o non lo siano ora a Legnano. La materia prima arriva qui e partono impianti completi. […] Che l’industria meccanica sia oggi in piena attività non si può dire, ma non sarebbe neppur giusto parlare di crisi. Il costruttore legnanese sa prevenire i colpi della mancata possibilità di vendita, adattando l’iniziativa e l’ingegno alle richieste del mercato nazionale ed estero. Ciò non significa però che difficoltà non ne investano e talvolta ne contrastino lo sviluppo con il loro peso. Le maggiori sono oggi quelle relative all’esportazione. […] L’industria meccanica già schiava degli altri Stati per la materia prima è costretta a subire leggi doganali tali da porla in stato di inferiorità nei confronti dei costruttori stranieri. Non vale essere tecnicamente più forti della concorrenza straniera quando perfino all’interno vengono offerte macchine talora ad un prezzo equivalente al puro costo del materiale e della mano d’opera. Contro queste ingiuste condizioni di vita commerciale non vi è arma efficace. Diamo atto che la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio ha il presupposto per darci un tangibile sollievo ma dobbiamo anche dire che non riteniamo che questo meraviglioso inizio di collaborazione economica fra gli Stati possa risolvere la situazione metalmeccanica italiana e perciò legnanese. L’industria meccanica chiede soltanto di trovarsi in condizioni amministrative, fiscali e doganali tali da poter far valere su un piede di parità le proprie possibilità».

L’ALI evidenziava però un ulteriore problema:

«Un’altra grave difficoltà per le nostre industrie è data da quelli che definiremmo appesantimenti burocratici. Si è formata negli industriali legnanesi la convinzione che il tempo che si perde per ogni richiesta non corrisponde alla entità dei risultati. E così l’industriale legnanese spesso si riduce – deluso – a tentar di risolvere i suoi problemi con le sue sole forze, piuttosto che rivolgersi agli enti governativi per cercare di ottenere quelle che sono a lui presentate come agevolazioni. Intendiamo riferirci particolarmente alla questione del finanziamento. Specialmente le piccole e medie industrie, nate dall’artigianato, si trovano in una certa fase del loro sviluppo nella necessità di avere appoggi economici in dipendenza di nuove possibilità produttive. Sorgono quindi necessità di finanziamento, ma ad esse seguono richieste di garanzie tali da superare spesso le possibilità del richiedente».

Fatte le debite premesse, si passava alla descrizione delle attività meccaniche della zona.

«Il primo posto spetta indubbiamente alle macchine utensili in tutta la varia gamma della produzione. Macchine d’ogni genere e d’ogni dimensione, di nomi ormai famosi e di realizzatori recenti ma già affermati, sono lanciate costantemente in Italia e in tutti i Paesi del mondo. Neppure gli industriali legnanesi sanno quali e quante sono le macchine utensili che sono prodotte a Legnano e questo che può sembrare un motto di spirito è comprensibile particolarmente agli specialisti che sanno come diffusa sia la possibilità di costruire macchinari in questo campo. A Legnano viene fabbricata la macchina di qualità, come la macchina di serie, viene fabbricata la macchina di grandissima mole, come quella di alta precisione per orefici, viene prodotta quella di largo uso come quella che ha invece particolari condizioni di impiego; a Legnano insomma la macchina utensile ha veramente la sua sede di sviluppo naturale. […] Con le macchine utensili meritano menzione le macchine per la lavorazione del legno. I legnanesi sono stati i primi a produrle in serie, e se ne produce la svariatissima gamma. Le macchine e gli impianti termici hanno anch’essi avuto una affermazione notevolissima. La produzione delle macchine tessili e da cucire, di cui a Legnano vi sono autorevoli rappresentanti, sente sotto certi aspetti gli effetti della crisi dell’economia tessile. […] Le macchine per i calzaturifici che si costruiscono localmente sono ricercate dalle industrie calzaturiere di tutta Italia».

Al lungo elenco si aggiungevano le macchine per l’industria cartaria e quelle per le fonderie. E, ancora:

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«Le macchine per le apparecchiature elettriche hanno a Legnano una autorevole produzione e hanno avuto in questo ultimo scorcio di tempo una grande affermazione all’estero, specie negli Stati Uniti d’America. L’inaugurazione a Legnano di un reparto di prova che non ha l’eguale in tutta Italia e che consente all’industria la possibilità di controllare la rispondenza delle macchine costruite a esigenze di capitolati e di norme vigenti solo in America, ha dato una spinta ascensionale a questa importantissima attività della nostra zona, che è destinata indubbiamente a ulteriore incremento. Vi è poi  un gruppo di macchine speciali le quali possono schematizzarsi in macchine per l’industria enologica, l’industria olearia, l’industria delle conserve alimentari, motori a combustione, impianti igienico sanitari, macchine per l’industria chimica, macchine per l’industria alimentare, apparecchiature sanitarie anche di alta precisione».

A fianco dell’industria meccanica notevole era, a Legnano e nella zona, la presenza delle fonderie.

«È interessante costatare – si legge nell’analisi svolta dall’Associazione industriali – come non soltanto il 40% delle fonderie italiane è in Lombardia, ma che di esse la maggior concentrazione si ha nella nostra zona e ciò di circa il 50%. Tale concentrazione è dovuta anche al fatto che nella nostra zona vi è grande produzione di macchine e che i getti di ghisa ne costituiscono la parte essenziale. Le fonderie sono principalmente di metalli ferrosi (ghisa e acciaio). Vi sono però anche fonderie di metalli non ferrosi (bronzo, ottone e alluminio). Ad eccezione di qualche grosso complesso, la massa delle fonderie è costituita da piccole e medie aziende, con produzione frazionata e quindi con un indice di produttività non molto elevato».

Il documento dell’ALI si soffermava anche sul mercato del lavoro, segnalando l’aumento della disoccupazione proprio a causa delle difficoltà del settore tessile. I dati proposti (riferiti ai comuni di Legnano, Parabiago, San Vittore Olona, Cerro Maggiore, San Giorgio su Legnano, Canegrate, Rescaldina, Busto Garolfo e Nerviano) variavano così dai 1.678 disoccupati del 1949 ai 3.227 del 1954, una cifra che peraltro rimaneva relativamente modesta se confrontata con il numero degli occupati[25]. Nel decennio successivo il tasso di disoccupazione tese a diminuire, tanto da rendere possibile, se non necessario, il flusso di manodopera da altre regioni.

 


[1] P. Galea, Tra ricostruzione e sviluppo cit., pp. 251 ss. Lo studio di Galea offre una puntuale ricostruzione del quadro dell’economia italiana negli anni Cinquanta.

[2] Il Cotonificio Cantoni nella storia dell’industria cotoniera italiana, 1872-1972, Tipografia Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano, s.d. [1972], pp. 234-5.

[3] Lettera del Sindacato provinciale dell’abbigliamento ai sindaci della zona di Legnano, 28 marzo 1952, in ASCL, c. 635, f. 1.

[4] Lettera della CGIL – Camera del Lavoro di Legnano al Sindaco di Legnano, 10 marzo 1952, in ASCL, c. 635, f. 1.

[5] Lettera del Prefetto di Milano al Sindaco di Legnano, 29 giugno 1952, in ASCL, c. 635, f. 2.

[6] Telegramma del Ministero del Lavoro, 2 luglio 1952, in ASCL, c. 635, f. 2.

[7] «Il 3° congresso della Camera del Lavoro, esaminata la situazione economica della città, situazione di disagio per tutte le categorie lavoratrici e particolarmente per le masse popolari, dovuta alla persistente crisi delle industrie tessili e calzaturiere e al profilarsi della crisi dell’industria metalmeccanica i cui primi sintomi si fanno sentire alla F. Tosi, ha accolto favorevolmente le decisioni del Consiglio comunale di convocare una Conferenza economica cittadina. Il congresso ritiene che tale conferenza preciserà le esigenze della città di Legnano, i bisogni urgenti di tutte le categorie lavoratrici e indicherà concretamente i mezzi per la loro soluzione» (CGIL – Camera del Lavoro di Legnano, 7 ottobre 1952, in ASCL, c. 635, f. 1).

[8] Hanno scioperato ieri i tessili, oggi sono di turno i metallurgici, in «Il Nuovo Giornale di Legnano», 23 luglio 1953.

[9] Lettera aperta del Consiglio di amministrazione della Cooperativa ‘Avanti’, 15 marzo 1956, in ASCL, c. 671, f. 2.

[10] M. Di Forti, Challenges of Plastic, Idea Books, Milano 1988, pp. 87-88.

[11] Lodevole atto di solidarietà con la classe operaia, in «Luce», 11 dicembre 1953.

[12] Tutti questi brani sono tratti da Il Cotonificio Cantoni cit., pp. 234-243.

[13] F.R. Castagna, Una grande industria cittadina: la S.p.A. Cotonificio Cantoni, in «Legnano», 1960, 1. Sulla stessa rivista si veda pure Medaglie d’oro ai dipendenti anziani della Cantoni e inaugurazione del nuovo stabilimento in località Olmina, in «Legnano», 1959, 4.

[14] La deplorazione per la chiusura della De Angeli Frua, in «Il Nuovo Giornale di Legnano», 15 ottobre 1955.

[15] Dopo la chiusura del ‘De Angeli Frua’, in «Luce», 28 ottobre 1955.

[16] La Cisl interviene per i licenziamenti alla ‘De Angeli’, in «Luce», 11 novembre 1955.

[17] Richiesta operai tessitori, 16 ottobre 1956, in ASCL, c. 671, f. 1.

[18] Risposta a Giovanni Bassetti, 18 ottobre 1956, in ASCL, c. 671, f. 1.

[19] Testimonianza scritta di Edoardo Pagani, 17 luglio 2001, in Archivio APIL.

[20] P. Macchione, L’oro e il ferro cit., p. 410.

[21] Ibid., pp. 411-412.

[22] G. Vecchio – D. Saresella – P. Trionfini, Storia dell’Italia contemporanea cit., pp. 322-324.

[23] Archivio parrocchiale di S. Magno, cart. 48, fasc. 7.

[24] P. Macchione, L’oro e il ferro cit., pp. 412-413.

[25] Associazione Legnanese dell’Industria. Dieci anni di attività, 1945-1955, ALI, Legnano 1955, pp. 16-35.